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Introduction
Questo saggio nasce dall'esigenza di rivalutare la nozione di
risentimento, troppo spesso ridotta ad un'unica accezione, fraintesa o
trascurata, alla luce di un evento storico che ha creato un nuovo tipo
d'uomo: la vittima dei campi di sterminio. Come sostiene Robert
Antelme, l'uomo, destinato dalle SS all'annientamento, non è stato
cancellato dalla storia1. Il sistema concentrazionario ha, anzi,
radicalizzato la sua consapevolezza. «Avete costruito in noi una
coscienza irriducibile - scrive Antelme, rivolgendosi ai suoi aguzzini
- Non potete più sperare di fare in modo che noi si stia
contemporaneamente al nostro posto e nella nostra pelle,
condannandoci»2.
Un avvenimento storico come la Shoah giustifica, anzi esige, una
riconsiderazione di alcuni schemi mentali, spesso inadeguati. È quanto
Jean Améry compie in Intellettuale ad Auschwitz, allorché prende in
considerazione i propri risentimenti. Egli si stacca da una tradizione
filosofica che, a partire da Nietzsche e Scheler, vedeva nel
risentimento la manifestazione di uno spirito astioso, per rivendicare
la propria «stortura» come una forma più morale e storicamente più
giusta di essere uomo. Il risentimento, infatti, è quel ritornare al
passato, che inchioda il colpevole alle sue responsabilità e spinge la
vittima a un legittimo, anche se tardivo, moto di rivolta contro
l'ingiustizia. Il risentimento, quindi, non è la vendetta ignobile e
sotterranea dell'impotente; esso diviene, per la vittima di un sistema
oppressivo, l'unico modo per moralizzare la vita e la storia. Lo
sconfitto, rovesciando la tradizionale posizione di riserbo o di
acquiescenza, spezza il proprio isolamento e, con il risentire,
fornisce alla morale dei nuovi strumenti di attacco e di
conferma. Ri-sentire, nel senso ampio di richiamare alla memoria con
partecipazione emotiva, ricordare non solo i fatti trascorsi ma gli
stati d'animo e le sensazioni che necessariamente li accompagnano, è
la premessa ineludibile per ogni atteggiamento valutativo.
(...)
Nel presentare questa nuova concezione del risentimento, non ho potuto
né voluto prescindere dall'autore di essa. Troppo stretto è qui il
legame tra il contributo teorico di Améry e il suo vissuto. Risulta
valida, in proposito, l'affermazione che Nietzsche faceva su di sé:
«In tutte le opere che ho scritto, io ho messo dentro anima e corpo:
non so che cosa siano problemi puramente intellettuali»3. Vi è
nell'esperienza di prigionia di Améry la chiave di lettura per
comprendere le sue prese di posizione, i suoi interessi filosofici,
così come i suoi inevitabili limiti. «So bene - egli ammette a
conclusione del suo saggio su Auschwitz - che queste esperienze mi
hanno reso inabile alle speculazioni profonde e a quelle elevate. Che
possano avermi fornito migliori strumenti per comprendere la realtà è
infine la mia speranza»4.
(...)
Eppure i saggi principali di Améry testimoniano anche un'altra
esigenza: quella d'interrogarsi su questioni fondamentali, esercitando
uno spirito filosofico ricco di sensibilità e riferimenti
culturali. «I libri - scrive Améry - non hanno solo un proprio
destino: talvolta possono essere un destino»7. Così
in Rivolta e
rassegnazione Améry cercherà di descrivere quell'impercettibile e
spietato processo di decadimento che è l'invecchiare. L'intuizione più
rilevante riguarda qui il rapporto di proporzionalità inversa che lega
spazio e tempo. Levar la mano su di sé, ideale continuazione del
saggio precedente, analizza lo stato d'animo del suicida, difendendo
la dignità della morte libera dai pregiudizi del senso comune. Améry
nega che il suicidio sia un chiaro indizio di follia, egoismo o
immoralità; ad un gesto così estremo, che pure resta un messaggio
rivolto all'Altro, egli s'accosta con comprensione e lucidità. Infine,
Charles Bovary, medico di campagna è un'ultima appassionata difesa del
raté, dello sconfitto, goffo e impacciato, dietro al quale si scorge
in controluce il fantasma magro e sparuto del sopravvissuto.
(...)
L'analisi delle reazioni, dell'atipicità del singolo diventano in
Améry l'occasione non solo per ricordare le responsabilità della
società in questo processo trasformativo, ma anche per riconoscere il
diritto di opporsi ad un tale abuso di forza. Tuttavia, per Améry, il
risentimento non è una spinta eversiva a modificare radicalmente il
dato; il suo legame profondo, esclusivo col passato rende
inaccettabile una rinascita, una miracolosa palingenesi, capace di
cancellare definitivamente il peso di ricordi dolorosi. L'intuizione
fondamentale di Améry consiste esattamente nell'aver colto la
complessa ambivalenza del risentimento, che è rifiuto reattivo del
presente e allo stesso tempo attaccamento emotivo, esistenziale al
passato. Il volto drammaticamente segnato di Améry e la scelta di una
morte libera sono l'espressione di un contrasto continuamente
rinnovato fra rivolta e rassegnazione, mai risolto.
1R. Antelme è l'autore di L'espèce humaine, edito da
Gallimard nel 1947, nel quale egli racconta le vicende del Kommando di
Gandersheim. In questa località, Antelme fu condotto il 1 ottobre 1944
da Buchenwald; da qui, nell'aprile del 1945, fu evacuato e portato a
Dachau, per essere infine liberato.
(Guia Risari, Jean Améry. Il risentimento come morale, Castelvecchi,
2016)
Awards and Critics
«[...] la sua opera brilla per onestà e sincerità,
per la scrittura
genuina che non nasconde niente, mettendo a nudo tutto ciò che
Améry
ha dovuto affrontare e sopportare nel corso di un decennio funesto,
che ha segnato la sua intera esistenza.
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